Siamo fatti della combinazione di un numero tutto sommato piccolo di elementi. Siamo fatti della materia delle stelle, ma questo non vuol dire che la materia delle stelle ci spieghi; la biologia non è detto spieghi la società, l'ha già detto Kroeber.
Kroeber era un allievo di Boas, e come lui era più interessato al multiforme intrecciarsi dei testi culturali che alle spiegazioni sintetiche.
Penso queste cose, o questi pensieri mi visitano, o questi pensieri si producono dandomi l'illusione dell'io, mentre siamo in un auditorium, ad ascoltare una conferenza di fisica.
Mi sono seduto in fondo alla sala, nell'ultimo posto della fila.
So che nessuno mi siederà vicino, a meno che non si tratti di un, o una, collega.
Lo so perchè sono le 10 di mattina e io sono un insegnante e questa è una conferenza per i ragazzi e da che mondo è mondo non ci si siede, se non strettamente obbligati, accanto ad professore.
Me ne sto zitto ad ascoltare, e dopo un po' vengo assorbito dall'ecosistema -insomma, i ragazzi che ho attorno cominciano a non registrare più la mia presenza aliena. Hanno stabilito come incapsularmi, tacitamente, com'è uso, da che branco è branco.
Il conferenziere comincia, è chiaro e didascalico e quindi, inevitabilmente, un po' ripetitivo. E' lontano sul palco, ma io annuso l'animale della mia risma, il collega docente; ne inquadro nel lessico la tendenza a mandare a mente dei pezzi di lezione -quelli cui più ci si affeziona- e la presenza di una moglie o compagna che cerca di arginare le piccole trascuratezze nell'accostare i vestiti. Ma qui tiro ad indovinare, colmo gli interstizi del testo con zeppe che dicono più di me che di lui. E' la deriva dell'interpretazione, echeggerebbe qualcuno.
L'onda pulsante dei giovani ascoltatori mette in atto le proprie strategie adattive.
Alcuni ascoltano, sinceramente interessati.
Alcuni annuiscono silenziosi, sinceramente disinteressati.
Alcuni leggono dal libro, dagli appunti, spicchi di testi utili a compiti o interrogazioni delle prossime ore, o -i più previdenti- dei prossimi giorni.
Alcuni bisbigliano in silenzio.
Alcuni brandiscono i cellulari, in attesa di un sms, di una foto, del caricamento di un gioco; oppure semplicemente per non sentirsi soli.
Non sempre il messaggino atteso è quello che vorrebbero. Non sempre un testo si completa secondo le nostre aspettative, e Jauss ci dice che spesso è meglio così, che lo scarto è salutare. Che la frustrazione dell'attesa produce senso palpitante.
Siamo fatti della materia delle stelle, del lavorio epocale dell'universo che sminuzza e ricombina mattoncini di lego.
Qualcuno esce ogni tanto cauto lungo i corridoi dell'auditorium; in bagno, o fuori, a fumare. Pochi, però.
Davanti a me, una fila oltre, due mani si sfiorano. Le dita di una cominciano a solleticare quelle dell'altra mano, che risponde alla stessa maniera. Le dita s'intrecciano. Si accarezzano; vengono avvolte nella carezza, palmo su dorso, dorso su palmo, delle altre due mani di chi dà volto a quelle mani.
Sono mani attive e quiete allo stesso tempo, procedono placide.
Sono le mani di due ragazze, che intrecciano una qualche storia che non so, e che nemmeno m'interessa ricondurre, come non interessava a Boas e a Kroeber, ad uno schema evolutivo (le storie di solito iniziano, culminano e finiscono, e saperlo cosa aggiunge?)- m'interessa questo intreccio che si dipana attivo e quieto, protetto dal calore del branco. Un branco che si comporta dunque secondo quella che Durkheim padre avrebbe chiamato solidarietà organica.
L'universo che forse ci consumerà, ma gli schemi biologici e fisici non spiegano le culture. Gli schemi testuali non spiegano quelle mani che s'intrecciano.
Esco. Oggi, come poche volte così mi è successo, voglio bene a questi ragazzi di questa scuola -dove insegno-, a questo mestiere impossibile.
3 commenti:
Meraviglia nasce, ogni volta. Ben detta.
Meraviglia: proprio così.
che bel post.
e bravo che citi gli antropologi.
ciao
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