martedì 8 gennaio 2008

sull'Umanesimo e Petrarca

Le vicende di un anno scolastico mettono di fronte a dei compiti ciclopici, come, ad esempio, provare a spiegare ai propri allievi sedicenni che cosa sia l'Umanesimo.
Ci sarebbe da stordirsi al solo pensiero, per fortuna nella vita ci si accontenta sempre di qualche definizione, di un paio di rimandi (in questo senso, gli allievi, a scuola, sono, davvero, infinitamente pazienti), e del fatto che poi verrà un'altra ora, un'altra materia, un'altra (per altri) missione praticamente impossibile...
Per fortuna che ci sono loro, gli autori da studiare, che ci aiutano, e così oggi, a provare a dire qualcosa di sensato sull'Umanesimo è stato quello che per qualcuno ne è l'inventore, cioè Francesco Petrarca.
Come lettura d'assaggio a questo colosso ho proposto la prima del libro di testo (perchè i libri di testo esistono, e li adottiamo anche noi insegnanti innovatori, e pure li usiamo, altrimenti cosa li adotteremmo a fare?), cioè Familiares 4.1, insomma quella del Mont Ventoux.
E così, leggendo il testo, i ragazzi colgono subito che per raccontare in pubblico delle proprie ansie più intime Petrarca ricorre sistematicamente ad una citazione: da Seneca, da Ovidio, da Catullo.
Ed eccolo, insomma, l'Umanesimo: la dichiarazione di una solitudine, una dichiarazione insieme sincera e mistificatrice; sincera, perché per essere colmata ha bisogno della compagnia non della carne e delle ossa, ma della carta; e mistificatrice, perché viene esibita e data in pasto ad un pubblico. E'una composta violenza.

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